lunedì 6 settembre 2010

QUAESTIO DE ACQUA ET DE TERRA



E' la più tarda delle opere dantesche, almeno per quanto risulta, essendo stata ricavata (per sua esplicita ammissione) da una dissertazione che Dante pronunciò a Verona il 20 gennaio 1320, poco più di un anno prima della sua morte.

E' anche l'opera più povera di codici e lezioni manoscritte; non è un caso, perciò, che la sua prima pubblicazione risalga al 1508, per merito di Giovanni Battista Moncetti. Per completare il quadro, va anche detto che si è dibattuto a lungo sull'autenticità dell'opera; la difficoltà con la quale molti la attribuivano al Sommo nasceva, del resto, da una motivazione più che valida; il quadro complessivo della cosmologia riferita nella "Quaestio" non collima completamente con quanto si ricava dalla "Comedìa".

E' ben vero che Dante può aver benissimo, anzi è quasi certo, riflettuto sul problema in termini di approfondimento specifico, laddove, nella "Comedìa", il tutto era inserito in una visione eccezionalmente più grandiosa, perciò anche meno puntuale nelle singole proporzioni.

In ogni modo, il tema della "Quaestio", che riprende una controversia svoltasi precedentemente a Mantova ed alla quale lo stesso Dante aveva assistito, è la dimostrazione che, in nessun punto del globo terracqueo, sia possibile che il livello dell'acqua superi, in altezza, quello della terra.

E' un problema "ristretto" ed in quanto tale, privo di quel respiro che solitamente si avverte negli scritti danteschi. Vi è, però, una particolarità quanto mai interessante; nella "Quaestio", Dante privilegia chiaramente le argomentazioni fisiche, usando quelle metafisiche come puro richiamo oppure, al massimo, come supporto.

Nicoletta E. Stagi



"E però io, che sin dalla mia puerizia nell'amor della verità fui nudrito, non volli tal quistione lasciar negletta: sì mi piacque mostrare quel che di vero fosse in essa e i contrari argomenti combattere, per l'amor della verità e in odio alla menzogna."

domenica 5 settembre 2010

"ERA GIA' L'ORA..." Purgatorio, canto VIII - vv. 1 / 6

"Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more..."




L'introduzione al canto si dice debba essere letta (i poeti del nostro risorgimento la sentirono in chiave romantica) nel clima religioso in cui si precisa l'ora della Compieta, l'ora che chiude l'ufficio divino, in armonia con l'inno "Te lucis" che intoneranno, dopo poco, le anime.

Il momento religioso si profila nell'accordo pieno che la nostra natura acuisce in quel punto; il sole è al tramonto e vi è un uomo che ha intrapreso la navigazione per la prima volta.

In quell'ora il cuore prova una tenerezza indefinibile, sia per le amicizie e le persone care lasciate, sia perchè sulla nave si ha il senso dell'esilio, di essere cioè un'anima distaccata dalla terra, in cammino verso una patria non conosciuta, e quella patria diviene qualcosa al di là dello spazio, ed a cui la mente pensa con nostalgia, richiamata alla verità spirituale dell'Oltremondo per tutto quanto suscita nel cuore il senso di una campana che suona l'"Ave Maria" e che si fonde, come una voce di pianto, al giorno che muore.

Nicoletta E. Stagi

"DE VULGARI ELOQUENTIA"

Gli unici due libri dell'opera sono comunque più che sufficienti a fornire un'informazione completa di quanto il Sommo considerasse il volgare, e di come intendesse elevarlo al fine di rendergli dignità e bellezza.


Nel primo libro, dopo aver premesso che, certamente, l'umanità dovette esprimersi in una lingua unica, generatasi intorno alla parola "EL", cioè "Dio", Dante passa ad analizzare la successiva frammentazione delle medesima in seguito all'erezione della torre di Babele, simbolo della presunzione umana.


Nate le diverse lingue, di cui gli attuali volgari sono la diretta discendenza, sorse il problema, in determinati periodi storici, di unificare a vario titolo le espressioni. I Romani, più di altri, avvertirono questa esigenza, connessa con il loro ideale di ridurre il mondo intero sotto la loro legge.

Da quest'esigenza, espressa attraverso un'altissima civiltà, nacque la "grammatica", ovvero il "Latino", lingua della ragione, immutabile e regolata da leggi che resistono al tempo e quindi adatta a permettere la comunicazione tra uomini di diversa estrazione e collocazione, non solo geografica, ma - e non è cosa da poco - storica.

E' grazie al Latino, infatti, che l'umanità ha potuto far tesoro della sapienza degli antichi.

Dante passa poi ad analizzare i dialetti italici, che egli raggruppa in quattordici idiomi principali, di cui nessuno merita il titolo di lingua eccellente, nemmeno il toscano! Anzi, per la verità, egli stima il bolognese, il miglior dialetto municipale, sebbene non sia così alto da poter essere adottato come lingua nazionale. Lingua che deve possedere quattro requisiti fondamentali, e cioè deve essere:
* illustre
* cardinale
* regale
* curiale.

Il secondo libro è una ricerca più particolare di ciò che occorre perchè una lingua possieda le quattro caratteristiche sopra citate. Dante precisa che una lingua non si esprime mai allo stesso grado poichè è necessario che "rifletta" il livello di colui che la parla.

Certamente un volgare illustre sarà utilizzato da un uomo illustre, che il Sommo individua tra coloro che esercitano la loro dialettica in attività nobili.

Inoltre la lingua deve adeguarsi alla materia che tratta; uno stile "elevato" diventa ridicolo se usato per questioni di poco conto, almeno quanto appare sconveniente che, con uno stile "umile", si trattino argomenti eccelsi.

Dante, perciò, classifica lo stile di una lingua in tre livelli differenti:
* tragico o alto
* comico o basso
* elegiaco o medio.

Prima che l'opera sia interrotta, egli ha modo di interessarsi dell'espressione tragica, che trova perfettamente realizzata nella poesia, soprattutto dalla canzone; questa, infatti, è una composizione d'alto contenuto e di stile impeccabile come dimostrano la sua struttura. Strofe compiute e bene articolate, che perciò si chiamano più propriamente "stanze", e versi nobili, a cominciare dall'endecasillabo, il più importante, il più musicale e, dunque, anche il più utilizzato nella canzone.

E' forse pleonastico sottolineare che, come sostiene il Sommo nella premessa, il "De vulgari eloquentia" è la prima opera che tratti dell'eloquio in una lingua volgare.

Nicoletta E. Stagi

LE FONTI DELLA "COMEDIA"

In merito alle fonti, la "mirabile visione" di cui il Sommo parla alla fine della "Vita Nova", preannuncio della "Comedìa", induce a porre il Poema sulla scia delle visioni allegoriche, tanto diffuse nel Medioevo.

In merito possono essere citate la "Visio Sancti Pauli", la "Visio Alberici", la "Visio Tungdali", la "Navigatio Sancti Brandani"; quanto all'argomento si ricordano poemetti in volgare largamente diffusi che trattano dell'aldilà, come il "De Jerusalem Coelesti", ed il "De Babilonia civitate infernali", di Giacomino da Verona, il "Libro delle tre scritture" di Bonvesin da la Riva, od il romanzo allegorico "Libro de' vizi e delle virtudi" di Bono Giamboni.

Tutti scritti che se possono documentare tradizionali atteggiamenti della letteratura religiosa medievale, non possono essere citati come "precedenti" della "Comedìa" di una qualche valenza.

E' da considerare, però, l'influenza sulla "Comedìa" (convalidata dagli studi di Maria Corti) del "Libro della Scala", opera musulmana, tradotta dall'arabo in castigliano per volontà di re Alfonso, che narra l'ascesa in cielo di Maometto.

Dante cita le sue fonti: in vista del viaggio ultraterreno prospettatogli da Virgilio, esprime i suoi timori ed i suoi dubbi, e si giudica indegno ad intraprendere una così ardua impresa, affrontata solo da personaggi eccezionali desidegnati da Dio, come Enea e S. Paolo: "Io non Enea, io non Paulo sono" (Inf. II, 32).

Ma quella esperienza, rincuorato da Virgilio, egli finirà per compierla; affronterà la discesa agli Inferi come Enea e l'ascesa al Paradiso come S. Paolo, rapito al terzo cielo (Ep. II Cor., XII, 2-4).

Sono alla base della "Comedìa", l' "Eneide" ed i Testi Sacri, e non solo idealmente; i richiami ad episodi dell'"Eneide" sono frequenti in tutta l'opera ed addirittura dominano i primi canti dell'"Inferno"; la "Bibbia" ha una presenza costante. Alimenta idee, immagini, sentimenti nel tessuto narrativo del Poema, con crescendo nella seconda e terza cantica.

Il sincretismo tra mondo classico (per ciò che se ne conosceva) e mondo cristiano, così tipico nel Medioevo, praticato per lo più con rozzezza in anacronistica confusione di notizie e personaggi, trova nel Sommo un'altissima espressione che coglie la continuità fra il pensiero degli antichi e quello cristiano, fra la moralità dei Romani, di cui esalta la pratica delle virtù civili, e l'etica cristiana, fissando principi che sono alla base della nostra civiltà occidentale.

Fin dall'esordio del suo Poema, Dante ci descrive la sua personale esperienza con le parole degli scrittori sacri e dei profeti; fa cadere l'inizio del suo viaggio nell'Oltremondo "Nel mezzo del cammin di nostra vita...", come Isaia che dice di andare alle porte dell'Inferno (XXXVIII, 10) alla metà dei suoi giorni ("in dimidio dierum meorum"); fissa biblicamente a settanta anni la durata della vita terrena ("Dies annorum nostrorum septuaginta anni" - Salmi, LXXXIX); la "selva oscura" è l'"immensa silva plena insidiarum et periculorum" di S. Agostino (Conf. X, XXXV) e ad essa Dante si ispira anche nel "Convivio" (IV, XXIV, 12) dove parla della "selva erronea di questa vita" nella quale entra l'adolescente; l'espressione "tanto è amara che poco è più morte" evoca l'"amariorem morte" dell'"Ecclesiaste" (VII, 27); così come è di ispirazione biblica l'idea del sonno per indicare il torpore del peccato ("tant'era pien di sonno in quel punto / che la verace via abbandonai"): dice, ad esempio, S. Paolo "hora est iam nos de somno surgere" (Rom., XIII, 11); come Dante viator si volge al "dilettoso monte", anche il salmista innalza gli occhi ai monti dove splende il sole, simbolo di Dio, per trarne aiuto: "levavi oculos meos in montes unde veniet auxilium mihi" (Ps., CCXI).

Gli studio hanno dimostrato che ogni immagine dei primi versi della "Comedìa" deriva dalla tradizione biblica. Questi dati, ormai noti, rivelano l'intenzione di Dante di dare al suo Poema un'autentica forza profetica di convinzione, alimentata dalle possibilità persuasive della poesia che, al di là di ogni "summa" a scopo educativo, sa parlare agli umani sentimenti oltre che alla ragione.

Nicoletta E. Stagi

sabato 4 settembre 2010

FOLLI PER IL SOMMO "Comedìa", ma non solo...

Promuovi anche tu la tua pagina

IL PRIMO DELL' "INFERNO"

Il primo canto fa da prologo a tutto il poema, non al solo "Inferno". Il protagonista non si trova ancora nell'oltremondo, ma ciò che si presenta ai suoi occhi è l'immagine dell'umana vicenda, espressa con simboli subito riconoscibili; dalle tenebre alla luce, dal male al bene, dal dolore alla gioia. In questo scenario simbolico si muove un uomo concreto, ben reale, con un'età definita, che si spaventa, trema e chiede aiuto. La sua richiesta di soccorso sarà raccolta dallo spirito di un personaggio storico, un grande poeta appartenente al mondo precristiano.



Dall'inizio al verso 31

"Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/ chè la diritta via era smarrita./ Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia e aspra e forte/ che nel pensier rinnova la paura!". La "selva" è il mondo decaduto, il disordine etico e morale che affligge l'umanità; il Poeta si colloca al suo interno, conscio di essersi perduto e di non seguire più le virtù, cioè "la diritta via".

Dante definisce l'esistenza umana con la descrizione di un viaggio, un cammino, un pellegrinaggio dell'anima che, volontariamente, si è imposta l'esilio dalla sua vera patria, cioè dal bene e, quindi, da Dio.

Da questo spaventoso luogo, misterioso ed intricato non c'è speranza di uscire; il ricordo della selva incute paura e l'amarezza di questo stato è simile alla morte ("che poco è più morte"), eppure il Poeta affronta nuovamente il timore provato per poter indicare la via della salvezza a tutti gli uomini ("del ben ch'i' vi trovai").

L'ingresso nella selva è avvenuto gradualmente, infatti il protagonista non ricorda il momento in cui è accaduto, ma secondo la confessione a Beatrice, nel Purgatorio, è stato causato dal traviamento morale ed intellettuale ("la verace via abbandonai").

"Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto....", il colle rischiarato dal sole simboleggia la via della virtù, una via in salita, illuminata dalla luce di Dio che si contrappone alla "valle" (o selva) oscura del peccato. In un solo paesaggio, la selva, il colle ed il sole, in realtà, sono disegnati i tre regni che Dante visiterà nel suo viaggio.

Il poeta leva lo sguardo e vede la cima del colle illuminata dalla luce del sole; l'uomo smarrito nella selva, con lo sguardo rivolto in basso, verso le cose temporali, alza la testa verso le cose eterne; la luce del "pianeta" che sta per sorgere (per l'astronomia tolemaica, il sole era uno dei sette pianeti che ruotavano intorno alla terra, centro dell'universo), calma la paura che riempie il suo cuore, al ricordo della "notte ch'i' passai con tanta pieta".

Come chi, salvatosi dal mare in tempesta e giungendo a riva , con il respiro ancora affannato, si volge indietro e fissa il pericolo scampato ("l'acqua perigliosa e guata"), anche il protagonista osserva la selva "che non lasciò già mai persona viva" e dopo essersi riposato un poco, riprende il suo cammino.

Dal verso 32 al verso 90

Appare la prima fiera; un leopardo, che simboleggia la lussuria ("lonza leggera e presta molto"), si muove davanti a Dante, impedendogli di avanzare, anzi, quasi respingendolo verso la selva "selvaggia", ma egli spera ancora di potersi salvare perchè l'ora è propizia.

E' la prima ora del mattino, ora nella quale si pensava che Dio avesse iniziato la creazione
ed è primavera, periodo nel quale si riteneva che l'umanità potesse essere redenta ("l'amor divino/ mosse di prima quelle cose belle").

Accanto al leopardo, compaiono un leone (che rappresenta la superbia) ed una lupa, immagine del vizio peggiore, la cupidigia, che molte persone "fè già viver grame".

L'accanimento di queste tre belve, i tre peccati che conducono l'uomo alla perdizione, che vogliono sospingerlo di nuovo nell'oscurità dell'anima, provoca al protagonista un turbamento tanto profondo che teme di non poter più raggiungere il colle luminoso ("la speranza de l'altezza").

Mentre egli sta per precipitare verso il fondo della valle, improvvisamente, appare "chi per lungo silenzio parea fioco"; di questo verso sono state date innumerevoli interpretazioni, ma, forse, la più realistica è quella che vede Virgilio, simbolo della ragione, con una voce che sembra aver perduto efficacia per non essere stata ascoltata da molto tempo. Egli richiama Dante alla coscienza del bene, dopo il lungo "sonno" del peccato.

Sempre più spaventato, il protagonista invoca pietà rivolgendosi allo spirito appena comparso e gli domanda se si tratta di un'"ombra", cioè di un'anima divisa dal corpo, oppure di "omo certo", quindi con corpo ed anima ancora uniti.

La risposta fornisce al protagonista indizi sull'identità del nuovo personaggio; egli è di origini mantovane, nato prima che Giulio Cesare morisse e vissuto nella Roma dell'imperatore Augusto "nel tempo de li dèi falsi e bugiardi", quindi prima della nascita di Cristo e questo particolare lo esclude dalla conoscenza della verità divina.

Virgilio, come già detto, rappresenta la luce della ragione umana che ha il compito di condurre gli uomini al bene, nei limiti della natura; egli assolve la sua missione quale emblema di quel mondo antico che giunge fino a dove la ragione può guidare l'uomo senza la luce della fede, fin quasi a profetizzare secondo alcuni, la realtà cristiana.

"Poeta fui, e cantai di quel giusto..", afferma di essere un poeta, autore dell'"Eneide" (che Dante aveva studiato e conosceva a memoria, rendendo omaggio all'opera ed al suo creatore innumerevoli volte, nel poema); dopo aver descritto sè stesso, chiede all'uomo mortale per quale motivo indugia in quel luogo angoscioso e non sale sul monte che è "principio e cagion di tutta gioia".

"Or se' tu quel Virgilio e quella fonte/ che spandi di parlar sì largo fiume ?/ rispuos'io lui con vergognosa fronte.", l'esclamazione prorompe con una intensa forza drammatica, la prima nella "Commedia"; Dante non risponde alla domanda postagli, dimentico del suo stato. Trovarsi al cospetto di "quel Virgilio" da lui tanto amato supera ogni altra emozione, ed il suo grido di sorpresa ed amore risuona con intensa umanità; il Poeta si trova davanti all'antico saggio, mentre sta per tornare indietro, e quindi china la fronte per la vergogna della colpa, per lo stupore dell'improvvisa meraviglia apparsagli e per la reverenza dovuta al grande maestro di poesia.

Virgilio è definito "onore e lume.." degli altri poeti, perchè li onora con la sua alta poesia e funge loro da luce e guida nel comporre versi; "lo mio maestro e' l mio autore..", "tu se' solo.." con le tre affermazioni Dante "cancella" tutti i poeti suoi contemporanei e crea un ponte diretto tra sè ed i classici antichi, eleggendosi quale prosecutore.

Queste tre terzine escono dal contesto narrativo, ma appaiono chiaramente come una dichiarazione d'amore verso il poeta mantovano.

Dante invoca l'aiuto del "famoso saggio", mostrandogli la lupa che impedisce il suo cammino e gli fa "tremar le vene e i polsi".

Dal verso 91 alla fine

"A te convien tener altro viaggio.." la risposta di Virgilio non tarda ed egli consiglia a Dante un "altro viaggio", cioè non quello dell'ascesa diretta al monte, ostacolata dalla lupa, ma una strada più lunga attraverso la conoscenza del peccato (inferno) e la scelta di purificazione (purgatorio); la belva - l'avidità - che terrorizza il Poeta, si ciba di chi desidera raggiungere la felicità ed è tanto malevola ed affamata che non si sazia mai, ma, anzi "dopo l' pasto ha più fame che pria".

Questo peccato si "sposa" a molti altri vizi, che si moltiplicheranno ancora finchè il "veltro" lo "farà morir con doglia". Il veltro è un velocissimo cane da caccia, ma a parte il significato letterale della parola, è tuttora un enigma la possibile identità del personaggio preposto a cancellare tali peccati; si pensa, genericamente, ad una figura che al dominio ed al denaro preferirà "sapienza, amore e virtute" e nascerà da una stirpe modesta ("tra feltro e feltro").

Porterà la salvezza a "quella umile Italia" (per Virgilio "umile" ha valenza geografica, cioè indica la bassa costa dove approdò Enea, mentre per Dante ha il significato di misera, infelice), per cui morirono alcuni personaggi dell'"Eneide", "la vergine Cammilla....... Niso", vincitori e vinti accomunati dallo stesso senso di pietà e nella stessa gloria, secondo il tratto tipicamente dantesco e virgiliano.

Il misterioso salvatore caccerà la lupa da ogni terra ("per ogne villa"), fino a farla precipitare nell'inferno, dal quale Lucifero l'aveva scagliata nel mondo per tentare gli uomini ("là onde 'nvidia prima dipartilla").

Al termine di questa profezia Virgilio si rivolge a Dante con un tono più discorsivo e, proponendosi come "guida", l'invita a seguirlo per un cammino non terreno, ma nell'oltremondo, dove potrà vedere "gli antichi spiriti dolenti" (inferno) ed in seguito "color che son contenti/ nel foco.." (purgatorio).

Se il viaggio nei primi due regni è necessario alla salvezza, per l'ascesa in paradiso Dante verrà lasciato libero di seguire la sua volontà. In ogni caso non sarà più Virgilio ad accompagnarlo nel terzo regno, ma una "anima fia a ciò più di me degna". Il poeta antico, essendo nato prima della nascita di Cristo, non ha potuto conoscere la fede ed in questo verso si avverte la malinconia ed il rimpianto per essere escluso dalla grazia e dalla rivelazione.

Il canto si chiude sull'invocazione che Dante rivolge a colui che sarà la sua guida nel lungo peregrinaggio che li attende; proprio in nome di quel Dio che l'antico poeta non conobbe, lo prega di aiutarlo ad evitare i vizi e la dannazione eterna, mostrandogli le anime meste e permettendogli di giungere fino alla "porta di san Pietro"............

"... ALLOR SI MOSSE,
E IO LI TENNI DIETRO"
"LA DIVINA COMMEDIA"

Introduzione di Nicoletta Erica Stagi

La "Divina Commedia" è il poema più sublime della letteratura italiana, di tutte le letterature mondiali e di ogni epoca.

Prima di Dante e dopo Dante non c'è stato nessuno in grado di creare un'opera tanto straordinaria.

Dante racconta ad ognuno di noi il nostro destino nell'oltremondo, ma non lo fa con un linguaggio religioso; egli è un laico che si fa carico della storia, di cui conosce tutti i dolori, e degli uomini, di cui conosce (e ne è partecipe) la miseria e la grandezza.

Il racconto della "Divina Commedia" attraversa l'intero universo dal suo luogo più basso, il centro della terra, al suo cielo più alto, l'Empireo; in questo racconto si muove un uomo mortale che appartiene alla terra, e quindi alla storia.

Quest'uomo storico è dotato di libertà; a lui è stato concesso il supremo potere di scegliere, nel tempo, la propria condizione eterna.

E' proprio questa figura nella "Divina Commedia" che ancora sorprende ed atttrae con un potente coinvolgimento. Il gesto terreno e quotidiano - a noi tutti ben noto - appare qui in tutta la sua portata ultraterrena, proiettato nella dimensione eterna rappresentata dall'aldilà.

Il duplice aspetto del poema, eterno e storico, costituisce la sua connotazione primaria e Dante ne era ben consapevole quando lo definì "'l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra"; le due caratteristiche non si possono separare, se non con il rischio di perdere tutto il senso e la bellezza stessa di questo grande racconto. La "Comedìa" non è un saggio teologico e neppure una sequela di singoli, commoventi fatti storici; non si può studiarla, e comprenderla, come tale.

E' un grande testo poetico, un poema epico che ha per protagonista non solo il mito, o la leggenda, o gli eroi, ma che narra gli eventi di tutti i giorni, con personaggi in genere ignoti, personaggi spesso conoscenti, amici e perfino parenti del Poeta.

Eppure ognuno di loro ha un'importanza unica, racchiudendo in sé una dignità assoluta, quella dignità propria di tutto il mondo dantesco, in quanto la persona umana è fatta ad immagine di Dio.

Persino le guide che lo accompagnano alla scoperta dei tre regni non sono angeli o santi come sarebbe lecito aspettarsi (solo l'ultimo è S.Bernardo, che lo porta alla visione diretta di Dio, nell'Empireo). Nella "selva oscura" è Virgilio che gli offre soccorso, un poeta dell'antico mondo pagano, il poeta amato da Dante più di ogni altro.

Raggiunta la cima della sacra montagna del Purgatorio, per la confessione delle proprie colpe ed il conseguente "trasumanare" (il trasformarsi dell'uomo nella dimensione divina), chi scende dal cielo, a giudicare e salvare, è Beatrice, una sconosciuta fanciulla fiorentina che ha illuminato tutta la vita del Poeta.

In questo poema ogni gesto dell'uomo è prezioso, ogni sua parola è valutata. Tutta la realtà è guardata da Dante con attenzione scrupolosa in ogni sua sfumatura e fa riflettere il modo in cui, parlando dell'oltremondo, egli abbia tanto acutamente descritto "questo" mondo.

Nel nostro tempo, intriso di minacce nucleari, terroristiche ed ecologiche che pongono quotidianamente agli uomini il problema della sopravvivenza sulla terra, forse il poeta fiorentino del trecento, con la sua parola "ornata", così vicina all'uomo e così immersa nel divino, può ancora offrirci un motivo di speranza.